martedì 13 giugno 2017

L'operazione e Torino. PT 1


Il 24 maggio 2016 vengo ricoverato all’ospedale Molinette di Torino. Sono in stanza con un ex alcolista che continua a chiedermi per cosa sono ricoverato e continua a dirmi di essere arrivato la sera prima. Non mi esaspera, quando gli dico che sono lì perché mi hanno trovato un tumore al cervello (e glielo ripeterò decine di volte) sembra fare degli sforzi per trovare qualcosa di opportuno da dire o da fare. Dopo l’operazione verrà più volte al mio letto, dove sono bloccato, letteralmente, e mi guarda con occhi tristi e mi rincuora. Per poi tornare a letto, addormentarsi, e chiedermi un’altra volta per cosa fossi lì e cosa avessi combinato.
Ma torniamo al 24 maggio. Arriviamo in ospedale attorno alle 15.30 e lasciamo correre le ore che ci separano dalla sera. La notte passa serenamente tra i vari campanelli d’allarme, le infermiere che accorrono tranquillamente, i rumori di un ospedale che respira, le richieste dei pazienti, la luce che entra dalle vecchie tapparelle dei grandi finestroni, il caldo…
25 maggio. Conosco l’anestesista, un tipo che mi piace e con cui perdo almeno un’ora parlando della musica russa. Attraverso una mia amica, Valentina, dottoressa a Torino che era venuta a trovarmi la sera prima conosco uno dei dottori che sarà nell’equipe che mi opererà il giorno dopo. È rassicurante sapere di essere in buone mani, e lui ci assicura che quelle dove sono io sono le migliori che mi potrebbero capitare. Anche Giulia si tranquillizza dopo questo incontro, dove ci viene spiegato tra coetanei in modo informale in cosa consisterà l’operazione. Vengo poi istruito sul bisogno di una doccia completa prima dell’operazione, o la sera, o ancora meglio al mattino. La sera incontro il dottor Mercatali, il neurochirurgo che assieme al dottor Rossi mi opererà. Mi racconta in cosa consisterà l’operazione, mi chiede se ho domande da fargli. È un tipo simpatico, ispira fiducia, è giovane, sembra freddo ma appassionato al punto giusto. Decido di fidarmi di lui. Non ho alternative d’altra parte.
La notte prima dell’operazione la passo da solo. Tra mille pensieri e nessun pensiero in particolare. Cerco di dormire ma ogni ora mi sveglio e guardo l’orologio. Quando alla fine prendo sonno vengo svegliato da un’infermiera per la doccia. Alle 6. Faccio la doccia, cercando di rilassarmi, di godermela. Metto il camice. Alle 7.30 mi portano a fare una TAC. Alle 8.45 entro in sala operatoria. Tutto questo accompagnato da mio padre e da Giulia. Ora, bisogna che descriva questa “entrata”, perché se uno non l’ha mai vista, o non sa come sia fatta, non riesce ad immaginarsela. Con le infermiere percorro chilometri di corridoi in quello che mi sembra un sogno lucido. Vengo poi messo su un lettino rigido davanti ad una vetrina, dove all’interno ci sono due altre infermiere. La vetrina poi si apre, esce un gran freddo, e vengo trascinato all’interno, dove vengo addormentato, e poi, sparisco dal mondo. Ora con mio padre più volte si è parlato della morte, e abbiamo convenuto che non è niente di diverso da un’anestesia. Senza il risveglio. È rassicurante convincersi di questo, perché in una situazione come la mia avrebbe potuto significare andarsene dal mondo pronti, sereni, e se si avesse ancora qualcosa da fare lo farà qualcun altro. Sotto sotto so che mio padre non la pensa così, e nemmeno io. Mi sono trovato a pregare la sera prima dell’operazione, quando si ha paura ci si attacca a tutto, se non altro per un calcolo probabilistico dove conviene credere al non credere che non ci sia nulla dopo. Perché se credendo e comportandosi di conseguenza non ci fosse nulla se non altro si avrà vissuto per bene, e se ci fosse qualcosa si andrà in quello che per la nostra società è il paradiso. Non credendo dopo la morte bene che vada non ci sarà nulla, però ci fosse qualcosa si finisce all’inferno. Per cui conviene credere, almeno in questi frangenti, ci sia qualcosa dopo… Se non altro non pensarci proprio per nulla. E aspettarsi tutto. Anche il nulla. Andai così a quell’operazione. Vuoto. Svuotato di tutto: paure, ansie, felicità, attese; l’unica cosa che mi sarebbe dispiaciuto non risvegliandomi era di dare dispiacere ai miei, a mia moglie, a mio fratello. Ma cosa potevo farci io? Sapevo di aver vissuto bene, di aver fatto tutto il possibile per avere una vita piena, soddisfacente, avevo vissuto tutti i giorni come se fossero speciali, doni, gli ultimi o i primi. Avevamo una vita speciale, dove il “carpe diem” era la norma. Quindi, vada come vada, affrontiamo questa cosa! Un ultimo saluto a Giulia e a mio padre, e via.
Quando mi risveglio scoppio in una risata, di felicità, tanto che contagio l’infermiera che è lì e il dottor Rossi, che viene e mi dice che verrà a trovarmi, che di solito tutti quanti quando si svegliano hanno una faccia cadaverica e sono musoni, e che sono il primo che vede ridere, io provo a dire grazie, dopo un po’ ce la faccio, ma non è facile. E lo ripeto più volte. Esco che sono le 15,30. E trovo in sala d’aspetto Giulia, mio padre e mio fratello. Mia madre la trovo subito dopo. Prima sono usciti l’amico di Valentina, che ha anticipato la buona riuscita dell’operazione, e poi il dottor Rossi, che conferma. Mi portano a fare una TAC, sono ancora sotto l’effetto dell’anestesia, mi sto risvegliando ma tutto è confuso. Alle 16.30 sono in camera, con una canula di drenaggio che mi esce dalla testa. Alle 19.30 resto solo con mio padre, Giulia va da una sua amica che l’accoglie per tutta la settimana. Alle 22.30 ricevo la visita dei medici: “ok, va bene, parla (anche se io non faccio che ripetere le ultime cose sentite, se semplici), non muove gamba e braccio (destri), ma riprenderà!”.
Mio padre passa le prime tre notti in ospedale con me. Ma è agitato, ansioso, passa il tempo a controllare la flebo, ogni movimento che faccio mi chiede se abbia bisogno, e io non riesco a parlare. Sono afasico. È terribile avere qualcosa da dire e non riuscirci. Faticare per trovare due parole che vadano bene magari delle ore. Non lo voglio più lì, ma non riesco a dirglielo. La mattina Giulia mi trova agitato, e praticamente muto. Riesco solo a dire “va via” a mio padre, “ciao” a Giulia, “acqua”, “pisciare”, e poche altre cose. In più la spalla del braccio ipotonico mi fa male. È la spalla che avevo lussata da piccolo e che ogni tanto mi usciva. Mi fanno vedere dall’ortopedico, che ordina una radiografia (fatta in qualche modo poiché alle Molinette non sono attrezzati per le radiografie alla spalla da sdraiati…) e poi mi caricano su un’ambulanza e mi portano presso l’altro ospedale di Torino, il C.T.O., per un’altra radiografia ed eventualmente il riposizionamento della spalla. Ci mancava questa. Mi accompagna Giulia. Mi tengono un tempo incalcolabile in attesa, mi chiedono dei movimenti assurdi con il braccio bloccato che cerco di fare perché non posso spiegare perché afasico, che sono appena stato operato al cervello e sono rimasto emiplegico, e che è inutile chiedermi di alzare il braccio o aggrapparmi ad una sbarra tanto non posso farlo. Invece lo faccio in qualche modo e sento la spalla rientrarmi. Non provo nemmeno a spiegarlo e gli lascio fare la radiografia. Diagnosi: la spalla non è lussata.
Vengo riportato alle Molinette. Giulia è agitata come lo sono anche i miei perché non erano stati avvisati del rischio che rimanessi afasico. Ma questa vicinanza del tumore all’area di Broca sapevo che avrebbe potuto dare questo disturbo. Poi se fosse stato passeggero, o cronico, non lo sapevo nemmeno io. Ero sicuro, perché un inguaribile ottimista, che sarebbe stato passeggero. E quindi non mi preoccupava. Giulia allora chiede alla dottoressa, di cui non farò il nome perché non avrò altro che parole brutte per lei, informazioni su questo fatto. Lei non fece altro che sospirare, e rispondere: “per ora è così, vediamo se migliorerà…”. Giulia telefona a Laura disperata. Laura è una nostra amica logopedista di Padova. La nostra prima amica di là. La rincuora e le dice di non preoccuparsi che per avere una diagnosi bisogna almeno aspettare un mese e che da un giorno con l’altro possono esserci delle differenze anche notevoli. Poi le dice che sentirà una collega che si occupa proprio di afasie. Non ci fosse stata lei sarebbe andata nel panico. Porco cane era così difficile? Allora: vale la pena aprire una parentesi sul reparto di neurologia di Torino. Uno dei più squallidi reparti di degenza, dove i bagni sono uno ogni 3/4  camere, con finestre che non si chiudono, caldi che si soffoca in estate, sporchi, dove non si ha la cura per il paziente se non nel caso specifico che trovi degli infermieri con un po’ di empatia, dove ci sono specializzandi che si atteggiano a gran dottori (e di fronte ad una coprolalia, ossia la tendenza in pazienti afasici di usare parolacce, se ne vanno offesi), dove manca la più minima organizzazione in termini di orari delle visite (nel mio caso si presentavano questi dottori di colpo e mi chiedevano di parlare, di muovere il braccio, la gamba, e constatavano una ipertonia nella gamba, data evidentemente dall’ansia di trovarmi lì a dover compiere un ordine di fronte a tante persone, magari appena svegliato da un sonno pomeridiano, o di fronte a ordini del tipo elencare tutti i fiori che mi venivano in mente, e a me usciva solo un “vaffanculo” ben detto sentirmi dire “non deve dire le parolacce signor Prando”), dove ti mettono ansia studenti che hanno visto troppe puntate di E.R. e ti mettono il tarlo del dubbio se quel formicolio sia una crisi epilettica che stia sopraggiungendo, e così via. Comunque la cosa più fastidiosa per quanto mi riguarda è la mancanza di orari certi, se tu sai che il giro dei dottori è più o meno sempre a quell’ora ti prepari. Non ti addormenti qualche minuto prima. E poi la presenza di stupidità, ignoranza, arroganza e mancanza di empatia. Devo dire che ho trovato molto più empatici e “furbi” alcuni infermieri che la dottoressa che seguiva il piano. Che mi chiedo ancora come abbia fatto ad avere quel posto, dato che non è nemmeno una bella donna da poter supporre qualche faccenda erotica…



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